La lotta contro i roghi illegali e il commercio clandestino di rifiuti che affliggono alcune delle regioni più vulnerabili del Sud Italia ha ricevuto un impulso significativo. Il Consiglio dei Ministri ha recentemente dato il via libera al Decreto-legge “Terra dei Fuochi”, una normativa che introduce provvedimenti eccezionali volti a reprimere le attività criminali a danno dell'ambiente e a salvaguardare la salute pubblica.
Il Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto, e la Viceministra Vannia Gava, hanno sottolineato l'importanza di questo decreto. Essi ritengono che l'inasprimento delle sanzioni sia essenziale per fornire alle forze dell'ordine e alla magistratura gli strumenti necessari per contrastare efficacemente i reati ambientali. Tra le novità più rilevanti, spicca la possibilità di arresto in flagranza differita per le infrazioni più gravi, come il disastro ecologico e lo smaltimento abusivo di scarti industriali e urbani.
Il testo normativo prevede diverse misure innovative: l'arresto in flagranza differita per crimini ambientali di massima gravità; un notevole aumento delle sanzioni per l'abbandono e la gestione non autorizzata dei rifiuti, includendo provvedimenti accessori quali la sospensione della patente, il fermo del veicolo e l'esclusione dall'Albo dei gestori ambientali per le aziende non conformi. Sarà inoltre permesso l'utilizzo di immagini di videosorveglianza per combattere l'abbandono di rifiuti da veicoli, e le imprese coinvolte in attività inquinanti, specialmente se legate alla criminalità organizzata, potranno essere sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Un finanziamento iniziale di 15 milioni di euro per il 2025 sarà destinato al Commissario unico, Generale Giuseppe Vadalà, per avviare le operazioni di bonifica e rimozione dei rifiuti, con l'impegno di ulteriori risorse future per la messa in sicurezza dei siti.
Nonostante l'approvazione del decreto, la Cgil esprime preoccupazioni riguardo all'efficacia delle misure attuali, ritenendole insufficienti per una bonifica capillare dei territori. Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil, evidenzia che su 226 mila ettari di aree di interesse nazionale contaminate, solo una minima parte ha visto progressi significativi nella caratterizzazione dell'inquinamento e nell'approvazione di progetti di bonifica. Con l'attuale ritmo di risanamento, ci vorranno decenni per completare il recupero. La Cgil richiede quindi una strategia nazionale integrata che includa non solo il risanamento ambientale, ma anche la protezione della salute e la riconversione industriale sostenibile dei siti.
La Cgil si impegna ad avviare una serie di iniziative a livello nazionale per accelerare i tempi e migliorare le prospettive di bonifica dei siti inquinati. Viene richiesta l'istituzione di un tavolo governativo straordinario per riaffermare la priorità dell'ambiente, promuovendo una rigenerazione industriale ecocompatibile che possa generare opportunità significative per il paese. Il successo del decreto dipenderà non solo dall'inasprimento delle pene, ma soprattutto da un'azione sinergica e strategica a lungo termine per il recupero e la valorizzazione dei territori devastati dall'inquinamento.
La penisola italiana si confronta con una vulnerabilità idrogeologica intrinseca, evidenziata dall'ultimo rapporto dell'ISPRA. Un'impressionante percentuale, oltre il 94%, dei comuni italiani è oggi minacciata da eventi come smottamenti, inondazioni ed erosioni costiere. Questa realtà impone una seria riflessione sulla gestione del suolo, indicando che la sicurezza del territorio è una priorità ineludibile. La frequenza crescente di questi fenomeni, che colpiscono indiscriminatamente abitazioni, infrastrutture e la vita quotidiana di milioni di cittadini, sottolinea la necessità di un approccio più risoluto e coordinato.
L'Italia detiene una posizione di rilievo, purtroppo negativa, nel contesto europeo per il numero di smottamenti. L'Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia (IFFI) ha catalogato più di 636.000 frane a livello nazionale, con una considerevole porzione, circa il 28%, caratterizzata da rapidità e forza distruttiva. Eventi recenti, quali quelli di Ischia nel 2022, l'alluvione in Emilia-Romagna nel 2023, e i disastri in provincia di Caserta, hanno richiamato l'attenzione sulla diffusa e grave esposizione del paese. La revisione della mappa di pericolosità da frana, che ora indica il 23% del territorio italiano come area a rischio o in stato di attenzione, e un 9,5% classificato a pericolosità elevata, serve come chiaro monito dell'urgenza di affrontare la delicata situazione idrogeologica.
Il Rapporto ISPRA del 2024 rivela che circa 5,7 milioni di persone in Italia vivono in aree vulnerabili agli smottamenti. Di questi, 1,28 milioni si trovano in zone definite a pericolo elevato o molto elevato, corrispondenti al 2,2% della popolazione nazionale. Si osserva un aumento del 15% nelle superfici totali a rischio rispetto ai dati del 2020-2021, con un incremento del 9,2% nelle aree più pericolose. Le regioni che hanno registrato gli incrementi più significativi includono la Provincia Autonoma di Bolzano (+75,8%), la Sardegna (+37,2%), la Sicilia (+36,7%) e la Toscana (+30,5%). Questo aumento, sebbene in parte dovuto a una migliore conoscenza e aggiornamento delle mappe, mette in evidenza la crescente gravità della situazione. Le province di Napoli, Salerno, Genova e Firenze mostrano la più alta concentrazione di abitanti in zone ad alto rischio. Tra le città capoluogo, Napoli spicca con oltre 42.000 residenti a rischio, seguita da Genova con circa 30.000 e Palermo con quasi 6.000. La composizione demografica delle aree più a rischio include un 11,5% di giovani, un 62,6% di adulti e un 25,9% di anziani, con le regioni del Friuli-Venezia Giulia, Liguria ed Emilia-Romagna che presentano la più alta percentuale di anziani esposti.
Il dissesto idrogeologico non costituisce una minaccia unicamente per la vita umana, ma rappresenta altresì un pericolo significativo per il patrimonio edilizio, l'economia e la ricchezza culturale della nazione. I dati del Rapporto ISPRA mettono in luce cifre preoccupanti: si stima che 742.000 edifici, pari al 4% del totale nazionale, siano situati in aree a elevato rischio di frana. Inoltre, 75.000 aziende, che rappresentano l'1,5% del tessuto imprenditoriale italiano, si trovano in zone considerate pericolose. Ancora più allarmante è la vulnerabilità del patrimonio culturale, con 14.000 beni (monumenti, siti archeologici, architetture) esposti a rischio frana, corrispondenti al 6,1% del totale. Le regioni maggiormente colpite da queste criticità includono Campania, Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte, Marche e Lazio, evidenziando una diffusione geografica del problema che abbraccia diverse aree del paese.
La crescente instabilità idrogeologica in Italia è il risultato di una complessa interazione tra fattori naturali intrinseci e l'impatto delle attività umane, aggravata dai cambiamenti climatici globali. Il territorio italiano, prevalentemente montuoso o collinare, presenta una morfologia e una geologia che lo rendono naturalmente propenso a fenomeni franosi e alluvionali. La presenza diffusa di rocce poco resistenti, specialmente in presenza di acqua, e la struttura delle rocce rigide, spesso intersecate da faglie, contribuiscono all'instabilità dei versanti. A ciò si aggiunge l'inasprimento delle condizioni climatiche, con eventi meteorologici estremi sempre più frequenti e intensi, che fungono da catalizzatore per gli eventi franosi e alluvionali, anche in aree precedentemente meno colpite. Parallelamente, l'urbanizzazione indiscriminata e spesso priva di una pianificazione adeguata ha triplicato le superfici artificiali dal dopoguerra, aumentando l'esposizione di persone e beni al rischio. L'abbandono delle aree rurali, con la conseguente mancanza di manutenzione di terrazzamenti e sistemi di drenaggio, e interventi antropici invasivi come tagli stradali e sovraccarichi edilizi, hanno ulteriormente compromesso la stabilità del territorio. Lungo le coste, l'eccessiva antropizzazione ha alterato l'equilibrio naturale, favorendo l'erosione e accrescendo la vulnerabilità alle alluvioni costiere, delineando un quadro in cui l'intervento umano si intreccia pericolosamente con le dinamiche naturali.
Per affrontare la complessa problematica del dissesto idrogeologico, è indispensabile un approccio multidisciplinare e coordinato che abbracci la pianificazione territoriale, una manutenzione costante, un monitoraggio efficace, la realizzazione di interventi strutturali mirati e una gestione sostenibile delle risorse agricole e forestali. L'ISPRA svolge un ruolo cruciale in questo contesto, gestendo piattaforme fondamentali come IdroGEO, che aggrega dati e mappe sulle aree a rischio, e ReNDiS, un repertorio degli interventi di difesa del suolo. Quest'ultimo ha censito quasi 26.000 interventi, per un investimento complessivo di 19,2 miliardi di euro nell'arco di un quarto di secolo. Tuttavia, il progresso è lento: solo il 34% degli interventi è stato completato, mentre un'altra porzione identica è ancora in fase di avvio o carente di informazioni, con un tempo medio di realizzazione di quasi cinque anni per ogni opera. Il Rapporto ISPRA 2024 mette in evidenza che la vulnerabilità idrogeologica è una realtà ineludibile per l'Italia, non più un'eccezione, ma una condizione strutturale. La consapevolezza che oltre un decimo della popolazione italiana risiede in territori esposti a frane, alluvioni o erosione, e che infrastrutture, imprese e beni culturali sono ugualmente a rischio, rende evidente la necessità di un impegno congiunto. Oltre agli investimenti, è fondamentale promuovere una cultura del rischio, favorire la prevenzione e accrescere la consapevolezza collettiva, poiché la sicurezza del territorio è una responsabilità condivisa che riguarda ogni cittadino.
In un evento significativo tenutosi il 29 luglio presso una concessionaria di autocarri in Indiana, l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (EPA) degli Stati Uniti ha rivelato una proposta che potrebbe segnare una svolta drastica nella politica climatica americana. Si tratta dell'annullamento della \"Endangerment Finding\", una dichiarazione formale che stabilisce come i gas serra costituiscano una minaccia per la salute pubblica. Tale azione, qualora fosse ratificata, priverebbe di fondamento una vasta porzione delle normative ambientali attualmente in vigore, compromettendo anni di sforzi per la tutela dell'ambiente con conseguenze che potrebbero estendersi a livello globale.
Questa \"Endangerment Finding\", istituita nel 2009 durante l'amministrazione Obama e consolidata da una decisione della Corte Suprema del 2007 (Massachusetts contro EPA), ha riconosciuto la pericolosità di anidride carbonica, metano e altri gas serra per il benessere umano. Essa costituisce la base giuridica che autorizza l'EPA a vigilare sulle emissioni provenienti da settori cruciali quali i trasporti, l'industria e la produzione energetica. L'amministratore dell'EPA, Lee Zeldin, ha etichettato questa potenziale revoca come la \"più significativa azione di deregolamentazione nella storia degli Stati Uniti\". Tuttavia, le giustificazioni legali e scientifiche a supporto di questa proposta sono oggetto di forte contesa. La tesi di Zeldin, secondo cui il Clean Air Act permetterebbe di normare solo l'inquinamento con ripercussioni locali e non globali, è stata confutata da esperti come Zealan Hoover, ex consulente dell'EPA, il quale, come riportato dal Guardian, sostiene che il Clean Air Act impone la regolamentazione di qualsiasi inquinamento atmosferico che possa ragionevolmente minacciare la salute pubblica.
La potenziale abrogazione dell'autorità regolatoria dell'EPA potrebbe, in un paradosso, ledere anche le stesse compagnie petrolifere. Fino ad ora, in contenziosi civili, queste aziende avevano argomentato che solo l'EPA aveva la competenza per gestire le emissioni. Senza questa protezione, potrebbero trovarsi esposte a ingenti richieste di risarcimento da parte di città e stati per i danni climatici. Sebbene alcune normative possano resistere, la cancellazione della \"Endangerment Finding\" comporterebbe un notevole arretramento nell'azione climatica federale. In un'epoca in cui il nostro pianeta si sta avvicinando pericolosamente al limite critico di 1,5°C di riscaldamento e gli eventi climatici estremi si verificano con crescente frequenza, la proposta dell'EPA trascende una semplice controversia legale o burocratica; essa rappresenta un confronto decisivo per il futuro della lotta contro il cambiamento climatico.
In un contesto globale dove l'accelerazione del cambiamento climatico impone azioni urgenti e risolute, è fondamentale che le decisioni politiche siano guidate da un impegno incrollabile verso la scienza e la protezione ambientale. La consapevolezza collettiva e l'azione individuale e istituzionale sono indispensabili per superare le sfide poste dai negazionismi e per costruire un futuro più resiliente e sostenibile per tutti. È imperativo difendere il progresso scientifico e le normative volte a tutelare il nostro pianeta, affinché le generazioni future possano godere di un ambiente sano e prospero.