Con la scomparsa di Gianni Berengo Gardin, avvenuta a Genova all'età di 94 anni, l'Italia perde uno dei suoi più illustri interpreti visivi del XX secolo. La sua opera fotografica, intesa come un'intensa narrazione sociale e civile piuttosto che come mera espressione artistica, ha saputo cogliere l'essenza della quotidianità e le trasformazioni di una nazione. Attraverso le sue immagini, spesso in bianco e nero, Berengo Gardin ha rivelato volti e luoghi, documentando con discrezione e profonda umanità le vicende che hanno segnato l'Italia, dalle problematiche condizioni dei manicomi fino all'impatto delle grandi imbarcazioni su Venezia, città a cui era profondamente legato e dove mosse i primi passi nel mondo della fotografia.
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, Gianni Berengo Gardin considerava Venezia la sua vera culla artistica. Ed è proprio nella Serenissima che, nel 2015, con il sostegno del FAI, presentò un reportage di denuncia sull'inquietante passaggio delle imponenti navi da crociera. Questa esposizione, intitolata 'Mostri a Venezia', sollevò notevoli controversie con l'amministrazione locale, che ne ritardò l'apertura. Le 27 fotografie, scattate tra il 2012 e il 2014 e tutte in bianco e nero, catturavano la grandezza sproporzionata di queste navi nel Canale della Giudecca, simboli di un inquinamento visivo e ambientale che minacciava le fragili fondamenta della città lagunare.
Berengo Gardin, che iniziò la sua carriera nel 1954 collaborando con 'Il Mondo' di Mario Pannunzio, ha dedicato la sua vita alla fotografia documentaristica. Dal 1966 al 1983, ha lavorato per il Touring Club Italiano, realizzando volumi sull'Italia e l'Europa, e ha collaborato con numerose aziende italiane di spicco. La sua lente ha immortalato per decenni i progetti architettonici di Renzo Piano. Le sue opere hanno varcato i confini nazionali, essendo esposte in eventi di risonanza internazionale come la Photokina di Colonia, l'Expo di Montreal del 1967, l'Expo di Milano 2015, la Biennale di Venezia e la mostra 'The Italian Metamorphosis, 1943-1968' al Guggenheim Museum di New York nel 1994. Numerosi i riconoscimenti ottenuti, tra cui il Prix Brassaï nel 1990, il Leica Oskar Barnack Award nel 1995, il Lucie Award alla carriera nel 2008, il Premio Kapuściński nel 2014 e il Leica Hall of Fame Award nel 2017. Le sue fotografie sono oggi parte integrante delle collezioni di musei prestigiosi a livello mondiale. Attualmente, fino al 28 settembre, la Galleria Nazionale dell'Umbria a Perugia ospita 'Gianni Berengo Gardin fotografa lo studio di Giorgio Morandi', un'esposizione di 21 scatti inediti del 1993 che documentano lo studio del pittore emiliano, testimoniando la sua incessante ricerca e il suo profondo legame con la realtà.
La visione di Gianni Berengo Gardin ci ricorda l'importanza del fotografo non solo come artista, ma come custode della memoria e testimone della società. La sua capacità di trasformare l'obiettivo in uno strumento di denuncia e riflessione offre uno stimolo profondo sulla responsabilità dell'arte e dei media nel rappresentare le sfide del nostro tempo. Venezia, attraverso i suoi occhi, diventa un monito universale sulla fragilità del patrimonio culturale di fronte agli impatti di un progresso non sempre sostenibile. La sua opera continua a ispirare e a far riflettere sull'impronta umana nel mondo e sulla necessità di un impegno civile costante.
Il dibattito eterno tra gli amanti del gelato, ovvero se sia più vantaggioso optare per un cono croccante o una comoda coppetta, ha finalmente trovato una risposta autorevole. Una professionista del settore gelatiero, con la sua esperienza pluriennale, ha gettato luce su questa questione, rivelando che, al di là delle preferenze personali e delle diverse modalità di consumo, esistono sottili differenze quantitative e qualitative tra le due opzioni. La sua analisi approfondita ha messo in evidenza come la scelta possa influenzare non solo la quantità di prodotto ricevuto ma anche l'intera esperienza di degustazione, ponendo fine a un dilemma che affligge molti golosi durante la stagione calda.
La rivelazione proviene direttamente da una gelataia con sede a Torino, che, tramite una pubblicazione virale su TikTok, ha condiviso le sue osservazioni professionali. Secondo la sua spiegazione, quando si ordina un gelato con due gusti in un cono, spesso si beneficia di un'aggiunta extra, una sorta di "ricciolo" superiore che, nella maggior parte dei casi, non viene replicato nella coppetta. Questo dettaglio, apparentemente minore, può tradursi in una quantità leggermente maggiore di gelato a parità di prezzo, rendendo il cono l'opzione potenzialmente più generosa. Inoltre, il cono offre il vantaggio aggiuntivo di essere completamente commestibile, eliminando la necessità di smaltire un contenitore separato e offrendo un'esperienza di consumo senza sprechi.
Tuttavia, l'esperta ha anche sottolineato che il consumo del cono non è esente da svantaggi. Specialmente in giornate particolarmente calde, il gelato nel cono tende a sciogliersi più rapidamente, richiedendo un consumo celere per evitare gocciolamenti e disordini. Questa pressione temporale potrebbe non essere gradita a tutti, soprattutto a coloro che preferiscono assaporare il loro gelato con calma e senza fretta. D'altra parte, la coppetta emerge come la soluzione ideale per chi cerca una degustazione più rilassata e pulita. Nonostante possa contenere una quantità leggermente inferiore di gelato, data la precisione nel dosaggio, offre una maggiore igiene e riduce significativamente il rischio di macchie, rendendola particolarmente adatta per i bambini o per chiunque desideri evitare spiacevoli incidenti.
In definitiva, la differenza di volume tra le due opzioni non è così marcata da giustificare una scelta basata unicamente sulla quantità. Come saggiamente concluso dalla gelataia, la decisione più conveniente è quella che massimizza il piacere personale e l'esperienza gustativa. Che si tratti della croccantezza del cono o della praticità della coppetta, l'importante è godere appieno del momento dedicato a questo delizioso piacere estivo. E per i più indecisi, la soluzione è sempre a portata di mano: perché non concedersi entrambe le varianti in momenti diversi?
In una terra devastata dalla guerra, ogni aspetto della vita quotidiana è compromesso, e persino i processi biologici più intimi diventano fonte di indicibile sofferenza. A Gaza, le donne affrontano la crudele realtà di vivere il ciclo mestruale senza le minime risorse igieniche. Questa carenza, lungi dall'essere un mero inconveniente, rappresenta una violazione profonda della dignità umana e un rischio concreto per la salute.
La testimonianza di Rula Jebreal, che raccoglie le voci disperate delle donne intrappolate nella Striscia, rivela una situazione agghiacciante: molte di loro sono spinte a considerare la sterilizzazione come l'unica via per sfuggire al tormento mensile. Questa scelta estrema non è dettata da libertà individuale, ma dalla disperazione di fronte all'impossibilità di gestire un processo corporeo naturale in modo dignitoso.
Il corpo femminile, nella Striscia di Gaza, è diventato metaforicamente un campo di battaglia. La regolarità del ciclo mestruale, un tempo simbolo di fertilità e vita, è ora un peso insostenibile a causa della carenza di prodotti essenziali. L'accesso limitato all'acqua potabile e l'assenza di servizi igienici adeguati costringono le donne a pratiche disperate, come lavarsi in mare aperto, esponendosi a rischi e umiliazioni.
Oltre alla fame e alla malnutrizione che affliggono oltre il 40% delle donne incinte o che allattano, a Gaza si manifesta un'altra forma di carestia, meno visibile ma altrettanto devastante: quella dell'igiene. La difficoltà nella distribuzione degli aiuti e il blocco delle forniture essenziali impediscono l'arrivo di assorbenti, disinfettanti e biancheria pulita, trasformando il ciclo mestruale in una prigione mensile di dolore e infezioni.
La situazione delle donne a Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma una violenza sistematica e invisibile. La gestione delle mestruazioni non è un lusso, ma un diritto umano fondamentale. Negare questo diritto significa infliggere una sofferenza inaudita, punire il corpo femminile e minare la sua stessa essenza, in un contesto dove anche la ricerca di cibo diventa un atto eroico e rischioso.